di Maria Pepe
Quando si parla di seta l’immaginario comune corre con la fantasia a quelle stoffe lucenti e lisce che danno vita ad abiti impalbabili e sinuosi. Nessuno, neanche il cultore della moda più attento, pensa nemmeno per sbaglio all’altro volto della seta, quello grezzo, quello che un occhio disattento erroneamente scambierebbe per canapa. La seta grezza, con le sue trame ruvide, è in realtà madre di uno degli abiti più cari e preziosi ad una donna… l’abito da sposa! Né bianco né beige, ma un delicato color burro, che cede il passo per i dettagli ad un leggero marrone del colore dei sacchi di juta, colora un abito dalla gonna vaporosa in maniera naturale, senza l’apporto di strutture che conferiscano volume, avvalendosi solo di un paio di strati di tessuto che liberi ondeggiano al camminare dell’”ancella”, che stringe il suo punto vita con una fascia pulita che si chiude in un fiocco legato a mano che morbido cade lungo la schiena.
L’andatura, la vita, la schiena, il décolleté, posto in evidenza dal semplice bustino dal taglio dritto, i punti cardine intorno al quale l’abito trova la sua struttura. Un abito semplice che apre le porte ad un mondo altro, quello degli antichi, quello delle vestali cinte in drappi che prendono forma con le nude mani, senza ago e filo, proprio come i “Pani antichi” che lo chef Vincenzo Del Sorbo ha riportato alla luce facendo, inconsapevolmente, col suo pane, dalla forma tonda con ben delineati gli otto spicchi da tagliare con le mani,
fatto di farine grezze, cigoli e spezie, un “affresco” della “mulier” del tempo.